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La chiesa di Parma dal 1848 alla caduta della Destra storica [ versione stampabile ]

La Chiesa di Parma dal 1848 alla caduta della Destra storica*

di Leonardo Farinelli
      
Dove e fino a quando ci sarà una concezione cristiana della vita e della società da una parte, e una visione laica, terrena, autonoma dell’individuo e della collettività dall’altra, là ci sarà dissidio tra la Chiesa e lo Stato(1). La profondità di questo dissidio dipenderà dai protagonisti, dalle circostanze e dagli interessi in gioco. 
Tra il 1848 e il 1870 gli interessi in gioco tra la Curia romana e lo Stato destinato a svolgere un ruolo di primo piano nell’unificazione italiana, il Regno di Sardegna, prima e lo Stato italiano poi, sono di tale portata da giustificare quasi l’asprezza del conflitto. 
L’esperienza della prima guerra d’indipendenza, conclusasi con la sconfitta di Novara (1849), fu decisiva per il futuro sia del Papato e sia del regno di Sardegna. 
Per il papato significò un ulteriore avvertimento che non era più procrastinabile il momento di rinunziare ad ogni funzione politica per dedicarsi completamente alla missione religiosa di sua specifica competenza. La miopia degli uomini del governo pontificio e le circostanze costrinsero la Chiesa ad assumere invece un atteggiamento di difesa, che esasperò i rapporti con lo Stato e condizionò comportamento dei cattolici verso il nuovo ordinamento.  
Il Regno di Sardegna, seppur sconfitto dall’Austria a Novara (1849), leggeva meglio “i segni dei tempi”. Comprese che era giunto il momento per realizzare il sogno di secoli, quello di fare del Piemonte il primo stato italiano, l’arbitro dei destini della Penisola. E non c’era mai riuscito, avendo di fronte il baluardo austriaco. Ora, le autorità piemontesi avevano trovato nel movimento nazionale un poderoso alleato.  Bisognava lavorare per  creare la nuova occasione o farsi trovare preparati, quando essa, da chicchessì promossa, si fosse presentata. 
A Carlo Alberto, “il mistico re di un’Italia di sogno” (2), succedeva sul trono il figlio Vittorio Emanuele II, uomo concreto che non conosceva i sottili tormenti del padre, i dubbi e le esitazioni. Contro la tendenza degli altri stati italiani, Vittorio Emanuele confermava lo Statuto, spalancava le porte ai compromessi e ai fuoriusciti politici di tutta l’Italia, i quali erano accolti come cittadini. Se ne trovavano dappertutto: nella cultura e nella politica, nella scuola, nella stampa, nel Parlamento. Nel Piemonte del dopo Novara, si respirava l’aria di tutta l’Italia. E in questa composita realtà si mosse con abilità il conte di Cavour che, mentre tesseva accordi con le altre nazioni europee, ristrutturava, modernamente, il piccolo Stato sabaudo, iniziando dall’eliminazione degli antichi privilegi ecclesiastici e delle corporazioni religiose.
Era lo stato moderno, fondato su principi laici, che richiedeva tale eliminazione, non una precisa volontà di colpire quanto nel corso dei secoli la Chiesa cattolica aveva conquistato in prestigio e in beni materiali.
Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei del 1° novembre 1885, infatti, scriveva: <<Poiché il popolo è considerato [dal Liberalismo] non altrimenti che la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, è logico che lo stato si ritenga sciolto da ogni dovere verso la divinità, che non professi ufficialmente nessuna religione, né si creda obbligato a cercare qualsiasi tra le molte la sola vera, né anteponga una all’altra, ma tutte le lasci ugualmente libere, finché non venga danno all’ordine pubblico. Sarà ancora logico abbandonare la religione alla coscienza degli individui; dare piena balìa a ciascuno di seguire quella che più gli aggrada, ed anche nessuna, se così gli piace. Quindi libertà di coscienza, libertà di culto, libertà di pensiero, libertà di stampa>>(3)
La lotta, contro la Chiesa del Regno di Sardegna e poi dello Stato italiano, che si concretizzava in una serie di atti legislativi, compreso quello militare della presa di Roma (20 settembre 1870)(4), mutava radicalmente <<la situazione giuridica e pratica della Chiesa rispetto a quella precedente e portava anche ad una secolarizzazione generale della vita sociale, che tendeva a prescindere in modo sempre più accentuato da ogni ispirazione religiosa, considerando la religione un fenomeno individuale e privato>>(5)
A quest’attacco la Chiesa rispondeva con atti di protesta, scomuniche e condanne dei princìpi che sostanziavano la legislazione laicista. 
Per tutti gli atti emessi dalle autorità ecclesiastiche con destinazione universale, si ricorda l’enciclica Quanta cura, promulgata l’8 dicembre 1864 da Pio IX , con la quale il Pontefice romano <<riprova, proscrive e condanna>> la teoria della sovranità popolare ed altre false e perverse opinioni, scagliandosi soprattutto contro il liberalismo che, sgorgato dalla <<sanguinaria Rivoluzione francese e dal protestantesimo razionalista, aveva rotto la compagine della civitas christiana, spazzato via gli antichi regimi assolutisti e proclamato la religione ‘affare privato’, e lavorava con accanimento per la separazione dello Stato dalla Chiesa, e la definitiva rottura dell’alleanza “trono e altare”>>(6)
Riflettendo sul lungo conflitto che si combatté tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica, si può osservare: che esso saldò ancor di più le diocesi, nonostante qualche dissenso, con il Papato, le quali consideravano la politica italiana perseguita dalla Santa Sede come un’implicita direttiva di carattere apostolico(7); che le due istituzioni giocavano la loro partita per vincerla e non per superare e ridimensionare il dissidio; che nonostante tutto <<non si verificò l’irreparabile e che malgrado le premesse ed alcune apparenze, i responsabili si mantennero sopra una linea moderata; in tutti i protagonisti fu sempre viva la speranza che un’intesa sarebbe stata ritrovata sopra un piano più alto, perché Chiesa e Stato erano valori insopprimibili ed imperituri>>(8); e che di questo conflitto furono  i vescovi, il clero e il popolo cattolici,  compressi tra le due istituzioni, a pagarne  gli  effetti peggiori , causando pure una spaccatura del mondo ecclesiale il quale si dividerà  in intransigenti e transigenti, con numerose sfumature tra i due grandi schieramenti.
Lo Stato italiano, attraverso una minuziosa legislazione(9), sottoponeva a controllo le espressioni esterne del fatto religioso: organizzazione, culto, proprietà, iniziative ecclesiastiche; rinunciava ad alcuni diritti giurisdizionali ( come la nomina regia di persone investite di benefici; diritto di appello per abuso di potere ecclesiastico); si attribuiva: la regalia sui benefici vacanti, la concessione dell’Exequatur e del Placet; parificava - con il nuovo Codice Penale - ai pubblici ufficiali i ministri del culto; toglieva il carattere ecclesiastico alla beneficenza e all’ istruzione con l’abolizione delle facoltà teologiche (con il consenso della Santa Sede), e dell’insegnamento religioso nelle scuole; laicizzava l’istituzione matrimoniale; annullava i privilegi propri dello stato ecclesiastico, della inviolabilità personale dei chierici e dei luoghi sacri; toglieva l’esenzione da oneri fiscali alle proprietà ecclesiastiche, conquistava infine Roma e ne faceva la capitale politica. Per di più tutti questi provvedimenti erano presi e questi fatti accadevano in un’atmosfera d’esasperato anticlericalismo, che non risparmiava neppure i dogmi della fede cattolica, ed in una sorta di pretese da parte delle autorità che chiedevano la presenza religiosa alle feste dell’unità nazionale oppure che si cantassero Te Deum in chiese e cattedrali per solennizzare accadimenti statali. Questa politica e propaganda contro il papato disgustavano più che la presa di Roma.  A nessuno ormai sfuggiva che il potere temporale della Chiesa era anacronistico; ma tutti, vescovi, clero e laici cattolici respingevano l’anticlericalismo, spesso gratuitamente volgare, e gli interventi legislativi sul clero e i suoi beni. Per cui le file dei nemici del nuovo Stato aumentavano ed erano rinforzate dal clero  in cura d’anime che era privato, con atti unilaterali, dei suoi antichi specifici riconoscimenti e proprietà. Questi ecclesiastici sia per il loro status sia per la presa che avevano sul popolo in generale, diventavano davvero nemici pericolosi, specialmente quando sostenevano che l’azione del governo era ispirata da una politica volta al ladrocinio, alla spogliazione, al sacrilegio. E a questa loro azione la Santa Sede non faceva mancare il dovuto appoggio. La Curia romana, infatti, considerando la politica ecclesiastica italiana come un attacco continuo contro la Chiesa cattolica ed un attentato alla propria libertà, impartiva disposizioni all’episcopato italiano finalizzate a rendere instabile il nuovo Stato, al quale i papi, Pio IX e Leone XIII, riconoscevano il solo fine di distruggere il cattolicesimo e il papato. Opporsi, pertanto, all’autorità costituita era considerato una testimonianza di fede e una collaborazione all’opera di riedificazione della Chiesa cattolica nel suo ansioso itinerario sull’arco del XIX secolo>>(10).
La più nota di queste disposizioni vaticane con destinazione i cattolici italiani, fra le più discusse, e forse la meno obbedita, è passata alla storia con il nome di Non  expedit : la formula generalmente usata dalle Congregazioni romane per esprimere una risposta negativa ad una istanza per ragioni di opportunità. Essa divenne famosa e s’impose poi come espressione di un programma politico-religioso dopo il 10 settembre 1874, quando, appunto, la Sacra Congregazione Penitenzieria imponeva ai cattolici italiani di non partecipare alla vita politica del paese né come eletti né come elettori(11).
Il Non Expedit non diede i frutti sperati. I cattolici, come sempre, marciarono politicamente per gruppi separati perseguendo, come tutti i propri interessi.

I Vescovi

Giovanni Neuschel


Tutte le problematiche sopra ricordate, si ritrovano con proprie peculiarità nella Diocesi di Parma, la quale, nel periodo esaminato, era retta dai vescovi: Giovanni Neuschel (30 maggio 1780, data di battesimo - 1852), Felice Cantimorri (1811-1870), Domenico Maria Villa (1818-1872). 
La Chiesa di Parma, per tutto il periodo del governo ducale, compreso quello dell’ultimo decennio, visse all’ombra del trono, il quale non le fece mai mancare né sostegno e protezione. 
Fu la duchessa Maria Luigia a volere l’ungherese Neuschel, suo personale confessore, abate e primo vescovo di Guastalla (1828), poi di Fidenza (1836) ed infine di Parma (27 gennaio 1843-27 settembre 1852); e fu la stessa duchessa a trattenerlo quando egli era intenzionato a dare le dimissioni per incomprensioni con il clero ed in particolare con quella parte di esso favorevole all’unità politica dell’Italia. Morta la Duchessa, al Vescovo veniva meno l’appoggio ducale. 
Il clero parmense, durante la prima guerra d’indipendenza come tramandato da alcune cronache del tempo e sostenuto dalla storiografia dei vincitori (Emilio Casa), peccò di un eccessivo patriottismo. Non solo un monsignore, Giovanni Carletti, era eletto membro del Governo Provvisorio, costituito l’11 aprile 1848, ma il Vescovo stesso doveva lasciare la città a seguito di una sommossa di popolo. Prima di partire, precisamente il 17 maggio 1848, dichiara con scritto autografo di rinunciare spontaneamente il vescovado di Parma. Il 25 maggio successivo, su 39.703 votanti, 37.250 si espressero, usando come seggi elettorali le parrocchie e la stessa Cattedrale, per l’unione al Regno di Sardegna. Assente e dimissionario l’Ordinario diocesano, il Capitolo della Cattedrale eleggeva vicario per la guida temporanea della diocesi, il canonico prof. Marco Tamagni che, preso dall’euforia del momento (strano in un ecclesiastico) così notificava e commentava l’allontanamento del Vescovo: <<La cacciata del Vescovo Neuschel sarà sempre cosa onoranda, perché liberò da un untume austriaco e mise la Cancelleria Vescovile in posizione di nettarsi da ogni vergognosa mena ed influenza […] Era comune desiderio che cessasse ogni norma Neuschelliana>>(12)
Come tutti gli eccessi, ben presto, anzi, già con l’Armistizio Salasco (9 agosto 1848) tornava la quiete e poi anche  il vescovo, il quale per il trattamento subito non porgeva l’altra guancia, ma l’8 giugno 1849 attaccava una parte del suo clero in questi termini:<<Se in Parma non mi è riuscito di stare in perfetta unione ed armonia con qualcuno dei Signori Parroci, ciò non derivò dal cattivo animo, di cui sono stato gratuitamente incolpato, ma dalle insidie di certuni Sacerdoti, i quali non contenti d’avermi subìto da principio con le satire più infami, con dei sarcasmi più iniqui, con degli insulti più sfrontati, oltraggiato, hanno poi cercato e adoperato tutti gli sforzi, tutti gli artifizi e modi possibili d’impedire e di troncare ogni comunicazione e corrispondenza tra il Vescovo e i Parroci, tra il Pastore e il gregge...ma siccome oggidì per sistema diabolico la malignità è quella che trionfa, la rettitudine che soccombe, la calunnia che domina...non mi ingombro di meraviglia che eziandio in mezzo al ceto ecclesiastico vi si trovino alcuni, le labbra dei quali invece di unire gli animi coi nodi di carità, li dividono coi morsi della detrazione. I calunniatori possono latrare anche contro gli innocenti... Era necessario, ch’io pure un qualche poco e con indignazione mi sfogassi contro alcuni parmigiani, sia ecclesiastici che secolari dai quali si ebbe a versare ed addosare contro di me tutta l’animosità più feroce e bestiale...>>(13). 
Il Vescovo rincarava poi la dose nella Relazione della Chiesa di Parma pel Triennio 1848-1850, nella quale, fra l’altro, sottolineava:  a) Molti del clero non solo colle parole e colla stampa aiutarono la rivoluzione, ma si costituirono in legioni ecclesiastico-militari e a modo di soldati presero parte agl’esercizi militari...; b)  Gli alunni del Seminario disertarono e i più adulti di loro presero le armi; c) il Canonico Teologo (Tamagni) veniva inserendo documenti rivoluzionari alle lezioni sulla Bibbia, e il Penitenziere (Carletti) era membro dei Circoli, ministro del culto nel Governo provvisorio, dava il suo assenso e ne  soscriveva gli ingiusti decreti(14).
Giovanni Neuschel, il vescovo che aveva governato tutte e tre diocesi dello Stato di Parma, era per indole, pietà e per il suo essere suddito austriaco mite e conciliante, cionostante era costretto a rinunciare alla sede parmense (27 settembre1852). Si trasferiva a Verona, dove con il titolo di arcivescovo di Teodosiopoli, moriva il 20 dicembre 1863. 


    Felice Cantimorri

Il vescovo, che traghettava la diocesi dallo Stato ducale allo Stato unitario, era Felice Cantimorri dei Frati Minori Cappuccini. 
Compagno di studi e amico personale di Pio IX, il Vescovo cappuccino giungeva a Parma il 15 agosto 1854 (presa di possesso), dopo l’esperienza episcopale effettuata nella diocesi di Bagnorea (1846-1854).
Nella sua prima fase, l’episcopato parmense di mons. Cantimorri <<si svolse entro un contesto culturale, politico e religioso, che si può dire favorevole per la Chiesa>>(15). Tuttavia, nella città emiliana, capitale, ancora per qualche anno, dello Stato farnesiano –borbonico, mons. Cantimorri si trovò subito a dover operare, cercando di farlo con illuminata bontà, zelo e prudenza, ma con indomita fermezza in un ambiente che, secondo Franco Teodori, era avvelenato dalle sette, che avevano fatto uccidere il duca Carlo III, e che avevano messo a base del loro programma di liberazione nazionale buona dose d’ingiustificato anticlericalismo, tendente a staccare gli animi dalla Chiesa e dai Pastori legittimi, e a dissacrare i tesori di fede e di tradizioni(16). Conscio di ciò, egli con chiarezza e coerenza si mantenne fedele alle sue fonti ispiratrici: i testi sacri e in assoluta obbedienza al Chiesa di Roma; e non perdeva occasione per dichiarare e riaffermare di essere un ministro di Dio estraneo alla politica in quanto tale, ove essa non urtasse con princìpi che un vescovo è in dovere di difendere. 
L’urto fra l’autorità ecclesiastica e quella politica, però, non tardava a verificarsi, causato non solo dal temporalismo, ma anche da motivi religiosi. Sull’uno e sugli altri il vescovo non mostrava alcuna tolleranza. E il suo atteggiamento creava dolorosi casi di coscienza soprattutto in quella parte del clero liberale che dipendeva per il proprio lavoro dallo Stato e sotto l’aspetto religioso dal vescovo.
Agli inizi del 1859, mentre giovani parmensi partivano per arruolarsi nelle truppe piemontesi, circolavano per la città fogli volanti inneggianti a Vittorio Emanuele II e insultanti il Vescovo, che era invitato a lasciare la città(17)
Il 9 giugno 1859 lasciava definitivamente il ducato Luisa Maria, la reggente, la quale, con la sottoscrizione del proclama di addio a data del stesso giorno, faceva calare formalmente il sipario sul ducato. Il vecchio lasciava il passo al nuovo, invitando il futuro a giudicare. 
I nuovi padroni, il 15 giugno, entravano in cattedrale a cantare il Te Deum  di ringraziamento e per invocare la protezione di Dio sull’Italia. Era Francesco Benassi, vicario generale della Diocesi a convocare in Cattedrale: <<Mentre nel volgere di pochi giorni s’inaugura un nuovo ordine di cose in questa non ultima fra le Città Italiche[…] mentre vittoriosi avvenimenti per l’Italiana Indipendenza si compiono ne’ Campi Lombardi […]e si approssimano a questa città schiere elette a nostra difesa ed aiuto, è troppo conveniente e giusto, che, in vista dei doni già conseguiti o da conseguirsi per celeste favore, si manifesti in Voi, Fratelli amatissimi, una viva emozione, che vi conduca ai piè degli altari a presentare nel fervore dello spirito i sentimenti di profonda riconoscenza a Dio degli eserciti che tiene nelle mani il cuore dei Re e che atterra e suscita gli imperi, secondo il suo beneplacito e dona la vittoria a coloro che ne sono degni, come le divine scritture ci proclamano altamente>>(18).  
Le due autorità si scontravano per la venuta a Parma del re Vittorio Emanuele II (maggio 1860) e per la Festa dello Statuto (2 giugno). 
Quando il Re d’Italia giunse a Parma, mons. Cantimorri non si faceva trovare. Il sovrano era ricevuto in Cattedrale dai canonici e dai preti del Consorzio dei vivi e dei morti. Dopo qualche mese lo stesso prelato ne spiegava il motivo: <<...non potendo io per ragioni a tutti note, presentarmi a ricevere alla porta della Chiesa la Maestà del Re nella sua venuta a Parma, la prudenza suggerì di allontanarsi per non dar luogo a disordini, in quel bollore politico che allora aveva invaso i parmigiani. Il mio divisamento però era (Dio ne è testimonio) di recarmi a Milano e stare assente soltanto pochi giorni, quando passato il Po...intesi dal cocchiere... che era stato costretto da un ufficiale dei soldati residenti a Brescello, a manifestare chi egli avesse condotto in quel legno. Per questo e per altri indizii, fu giudicato che la mia persona era in pericolo. Ed in tal frangente non vidi altro scampo che avviarmi a piedi verso il confine austriaco, toccato il quale conobbi non essere più prudenza far ritorno a Parma: e però di colà mi portai in Roma>>(19) e imponeva a tutti i sacerdoti di non celebrare messe per detta festa, preannunciando ai trasgressori sanzioni canoniche.
Mons. Agostino Chieppi era uno dei sacerdoti che come insegnante dipendeva dallo Stato e come sacerdote dal Vescovo. Scegliendo d’ubbidire al secondo, era allontanato dall’insegnamento, e successivamente processato per un’omelia tenuta a Traversetolo. Era assolto dalla condanna del domicilio coatto per mancanza di prove(20)
Il laico e patriota Emilio Casa in una relazione redatta su richiesta della Prefettura così commentava la conflittualità fra Chiesa e Stato a Parma. Dopo aver condannato la chiusura mentale del vescovo Cantimorri, senza nominarlo però, ed aver esaltato l’apertura mentale del clero parmense, proseguiva: <<Se il clero parmense non è per la patria, la colpa è di Roma, della Roma sacra e profana. La prima non collabora a risolvere la questione romana; la seconda non ha fatto nulla per la sua incolumità; anzi ha fatto molto per nuocergli. L’Italia di Vittorio Emanuele II ha impoverito il clero, lo ha umiliato di fronte al popolo e alla chieseria oligarchica; lo ha scacciato dalle scuole; lo ha spogliato di ogni prestigio. E se qualcuno di esso si manifestò liberale, lo ha abbandonato inerme alla furiosa percossa di Roma. Lo ha aggravato di balzelli, scambiando un ministero sacro e morale con un volgare mestiere. Tutti hanno trovato pietà in qualcuno, ma chi ebbe pietà della miseria di un parroco? Nel parmigiano vi sono preti poveri; nelle sue montagne ve ne sono di quelli cui manca anche il minimo indispensabile. Di superfluo nessuno ha; e un po’ di superfluo è pur sempre necessario al sacerdote che deve porgere esempio di carità>>(21)
Mons. Felice Cantimorri moriva il 28 luglio 1870 a Mugnano, paese della sua antica diocesi di Bagnorea, mentre tornava a Parma da Roma, dove aveva partecipato al Concilio Vaticano I. 
La figura austera, però, di questo religioso-vescovo, scrive padre Teodori, i suoi esempi ed insegnamenti e soprattutto la sua fortezza d’animo e l’indomito coraggio del pastore impressionarono diversi membri del clero parmense, fra i quali il seminarista Andrea Ferrari, poi vescovo di Guastalla e Como, cardinale e arcivescovo di Milano, la diocesi più grande della cristianità. 
Una studiosa laica, Bianca Montale, parlando dell’intransigentismo di Felice Cantinorri puntualizza <<Esso non va superficialmente liquidato con un giudizio negativo senza un’analisi attenta della fede che lo ispirava e dell’operato sovente altamente apprezzabile sul piano della carità cristiana in una realtà sociale particolarmente difficile”(22).  Il “suo” clero parmense sarà stato pur intransigente, in parte per convinzione e in parte per obbedienza al Vescovo, però era presente fra gli umili e i diseredati, aiutandoli come sapeva e poteva, mentre da parte dello Stato essi erano vessati con imposte fondiarie, con imposte sul bestiame, sul macinato e con la leva militare. 
      
       Domenico Maria Villa

Morto mons. Felice Cantimorri, <<Il Vescovo – ha scritto Umberto Cocconi-
che dovrà raccogliere l’eredità della storia civile e religiosa della città e della diocesi di Parma, si troverà a dover fare i conti con la situazione complessa a tutti i livelli: ecclesiastico, religioso, sociale, politico e culturale. E’ tramontato, soprattutto a partire dal 1860, l’antico connubio di trono e altare, anche se sopravvivono forze conservatrici e legittimiste, ed i nuovi politici cercano di stabilire ponti e legami proficui che rafforzino le trasformazioni avvenute>>(23).
La Santa Sede faceva succedere al Vescovo cappuccino sulla cattedra episcopale parmense, che fu di S. Bernardo degli Uberti ma anche di Cadalo, Domenico Maria Villa,
<<uno dei punti più luminosi, delle gemme più preziose del clero parmense>>(24)
La scelta cadeva su questo prelato per la sua fermezza apostolica, la sua temperanza di maniere e di forme, per il suo lungo servizio pastorale quale abate mitrato di Bassano del Grappa. 
Giungeva a Parma senza chiedere l’Exequatur, per cui visse per anni in seminario. Era un sacerdote che scelse i poveri che aiutava come poteva e con quanto aveva. Non si poneva però il problema del perché della povertà e quali e dove fossero le sue cause. Mons. Villa della povertà possedeva il solo concetto teologico:
la povertà è conseguenza del peccato e come tale è inevitabile e ineliminabile. 
Era un ecclesiastico che leggeva il vangelo e verificava la sua azione sulle proposizioni del Sillabo. 
Era un vescovo del post-concilio, quindi fedele al papa, convinto assertore del primato del romano pontefice, coronato -come già ricordato- dal dogma dell’infallibilità, e docile strumento nelle mani della Curia.
Il suo integralismo fu mitigato dall’uso della carità evangelica e non reso oltre misura greve facendo ricorso  alle imposizioni e/o  alle sanzioni  del diritto canonico. 
Al nuovo vescovo Parma si presentava come una città che aveva perduto lo spirito della religione, dove la religione non era più la scorta dei suoi pensieri ed atti e nelle cui chiese la dottrina cristiana era abbandonata o quasi(25). Per cui il compito che si sarebbe assunto con tutte le sue forze e usando tutti i mezzi a sua disposizione come pastore della diocesi, sarebbe stato quello di difensore e di custode del principio cattolico. “L’odierna società - scriveva mons. Villa - 
si dibatte nelle convulsioni dell’anarchia ed è sotto lo strettoio delle desolanti dottrine del nulla, ed il vescovo deve prenderla tra le braccia questa società ammalata... vivificarla...fecondarla di sani principi, elevarla verso il cielo per avvicinarla e consegnarla a Dio, e quindi riportarla sulla terra... piena di nuova vita, ricca di forza e di maestà”(26)
Un vescovo per realizzare il suo programma deve poter contare sulla   collaborazione dei  sacerdoti, i quali per mons. Villa, però, debbono saper operare una sintesi delle varie materie e riportare ogni disciplina a Dio, da cui ogni scienza, anche profana, proviene; applicarsi con impegno allo studio della filosofia teoretica e sperimentale, attenendosi alla sostanza e al metodo della filosofia scolastica, rifuggendo dalle passioni di parte e da quelle teorie che concedono troppo alla facoltà pensante; ricercare nello studio della dogmatica le testimonianze che gli chiariscano le verità della fede ed imparare a dimostrare che l’ossequio che noi prestiamo ai sublimi veri del cattolicesimo, è ragionevole; affrontare la morale sulle tracce dell’incomparabile dottore della Chiesa S. Alfonso de’ Liguori, la cui teologia venne riconosciuta dal supremo giudizio del Concilio Vaticano I; studiare la bibbia per appianare le apparenti discordanze del sacro testo; la storia ecclesiastica per lumeggiare i contrasti e i trionfi della Chiesa nello svolgimento delle sue fasi; il diritto per mettere in rilievo titoli e attribuzioni delle persone e dei luoghi(27)
Di fronte al contrasto allora in atto tra la Chiesa e lo Stato, mons. Villa sceglieva non la strada della mediazione, ma quella intransigente della Curia romana. Anzi era tra i primi vescovi a riaffermare il principio dell’autorità della Chiesa, quale sostegno della vita sociale e civile, non solo religiosa; criticava l’ostilità al papa e la ribellione alle sue leggi, convinto che non la Chiesa deve riconciliarsi con la civiltà, ma la civiltà con la Chiesa, ritornando ai principi di equità e di giustizia. Egli sosteneva che la Chiesa cattolica amava la civiltà e la voleva amica, ma prima di tutto voleva amica la legge di Dio, la giustizia e la verità(28).
Ed è proprio l’impegno sociale di mons. Villa che preoccupava i ‘mangiapreti’ : <<La propaganda clericale reazionaria ha avuto da mons. Villa un vivo impulso. E si compie oggi con insolita attività sotto il manto della religione e della carità, con fino artifizio, negli ospedali, nelle carceri, nelle scuole, nelle famiglie, specialmente dei poveri, nell’orecchio de’ quali si sussurra la parolina reazionaria accompagnandola con scarsa moneta e con promessa di prossima e più abbondante elemosina.>>(29)
Più che la parolina reazionaria sussurrata nell’orecchio, i miseri e i diseredati di Parma e provincia erano colpiti dal costatare come essi, ignorati dalle autorità costituite, fossero oggetto di attenzione e di sostentamento da parte di preti, suore e da membri di associazioni cattoliche, che sotto mons. Villa ricevettero un deciso impulso. 
In una Parma ripiegata su se stessa, che si leccava le piaghe per il perduto status di capitale e il venir meno di quel complesso di attività artigianali richieste dalla presenza della corte e del governo ducali; in una Parma, dove l’usura era di casa, e quello che veramente contava per la maggior parte della gente era poter sopravvivere. A questa gente, che non aveva di che sfamarsi, che cosa poteva interessare se le liste cattoliche si presentavano o non si presentavano alle elezioni amministrative? Oppure se uno sparuto gruppo di cattolici più che essere intransigente era legittimista e se la Curia romana decideva di non accettare la legge sulle guarentigie?  A questa gente, si diceva, cosa poteva interessare se era meglio seguire il pensiero tomistico e quello rosminiano? se c’erano dei preti conciliatoristi, mentre i più, seguendo il proprio Vescovo, erano intransigenti; se nel 1876 andò al potere la Sinistra?
Il Vescovo Villa, pastore evangelico, senza naturalmente fare una cosa eccezionale data la scelta di vita fatta, capì le esigenze della gente, si fece povero, non a parole, tra i poveri, e scelse la carità, non solo nell’accezione di elemosina, la quale, per i credenti, è la più grande delle virtù.
Moriva il 22 luglio 1882. Nell’ottobre successivo Agostino Depretis iniziava a governare grazie al trasformismo, cioè basandosi su maggioranze sempre diverse e provvisorie, sui rapporti personali, su interessi ristretti e corporativi, sul "clientelismo". 


*Rielaborazione di più parti dell’articolo pubblicato in  A Parma nel mondo. Atti delle Ricorrenze saveriane (1994-1996). A cura di Piero Bonardi... Parma, 1996 pp. 90 -107.

NOTE
(1) P. BREZZI, Stato e Chiesa nell’Ottocento. Torino, ERI - Edizioni RAI, 1964, p. 84.
(2) Fr. VALSECCHI, Storia del risorgimento. Torino Edizioni RAI, 1965 p. 41.
(3) LEONE PP. XIII, Immortale Dei, testo latino e italiano, Civiltà cattolica, n.12, 1885  pp. I-XL).
(4) Legislazione laicista piemontese-italiana:
1848, agosto. I Gesuiti, esponenti della reazione e simbolo del conservatorismo, sono espulsi dal Piemonte, dalla Liguria e dalla Sardegna; 
1850, agosto. Sono votate le Leggi Siccardi per l’abrogazione del foro ecclesiastico e l’acquisto degli enti morali ed ecclesiastici;
1855, 29 maggio.  Leggi Cavour:  la soppressione delle corporazioni religiose per il tolto riconoscimento a esse come enti morali. Furono colpiti 35 Ordini religiosi; su 604 Case con 8.563 membri ne vennero soppresse 334 con 5.456 membri: 1862-63. Prima che alle nuove regioni annesse s’estendessero nel 1862-63 le leggi piemontesi sulle Opere Pie, sull’Exequatur e il Placet, e che il 7 luglio 1866 avvenissero la liquidazione dell’asse ecclesiastico e la generale soppressione degli ordini religiosi, la Destra piemontese (cui appartenevano personalità aperte ai valori cattolici) era andata oscillando fra politica concordataria e separatismo. E questo viene a prevalere con la scissione della destra e il “connubio” fra Cavour e Rattazzi;
1867, 15 agosto: Legge Rattazzi che dispone l’abolizione dei canonicati, cappellanie e collegiate e benefici a cui non era annessa cura d’anime;
1870, 20 settembre: conquista di Roma e definitiva perdita del potere temporale della Chiesa;
1871, 3 maggio: Legge delle guarentigie
1877: legge Crispi che abolisce le decime;
1889: promulgazione del codice civile Zanardelli;
1890: Legge Crispi. Le Opere pie furono conglobate nelle Congregazioni comunali di carità, dal cui consiglio d’amministrazione erano esplicitamente esclusi i parroci. Furono soppresse 21.766 fondazioni, di cui 2.400 per il culto: il patrimonio complessivo ammontava allora a un valore di 2 miliardi;
(5) G. MARTINA, Pio IX / Chiesa e mondo moderno. Roma, Edizioni Studium,1976  pp. 27-28). 
(6) L. SANTARELLI, L’Azione cattolica. Catania, Edizioni Paoline, 1959 p.17.
(7) C. BELLÒ, Società ed evangelizzazione nell’Italia contemporanea. Linee di una storia e di una pastorale. Brescia, Queriniana, 1974  p.10.
(8) P. BREZZI, Stato, cit., p. 85
(9) Vedi elenco nella nota n.4
(10) C. BELLÒ, Società  cit. pp.13-14
(11) Si riportano due brevi scritti sul Non Expedit. Nel primo c’è in nuce la storia di questa disposizione, nell’altro una sua interpretazione.  Il primo, scritto del 1886, è del teologo padre Giovanni Cornoldi:  <<Da principio la legge delle astensioni fu fatale. Si poteva e si doveva porre tutta l’energia per andare a reggimento della pubblica cosa. Fino al 1870 la ecclesiastica autorità promuoveva l’andata; ma c’era una pubblica opinione contraria formata da ragazzi pieni di zelo e senza testa, gli “intransigenti”.  Dopo il 1870 Pio IX trovò l’opinione formata e vedendo la ineluttabilità della sua azione proclamò astensioni dalle elezioni politiche. Fin qui Leone XIII si trovava nella stessa situazione. La confusione è grande. Da tanti anni in generale i confessori non sanno sciogliere gravissime crisi di coscienza in proposito. I vescovi non sanno e non vogliono>>. Il secondo è dello storico Carlo Bellò: <<Lo scopo pastorale del Non Expedit fu duplice. Non potendosi ridurre ad un maestoso risentimento pontificale ed alla predicazione della oggettiva discrezione del dovere civico, vi stavano anche motivazioni positive, quella di separare i cattolici dalle responsabilità dei governi, di coltivare così, nell’ambito del sacro, una opposizione all’indirizzo politico, una massa d’urto potenziale in attesa dei segni provvidenziali. Forse avrebbe potuto costituire un metodo didattico che distaccando le masse cattoliche dalle immediate responsabilità, si conservassero pronte per una alternativa ideologica e politica cristiana>>[Carlo Bellò, Società cit. p.17.].
(12) cfr U. Cocconi, Chiesa e società civile a Parma nel XIX secolo. Leumann (Torino), Editrice Elle Di Ci, 1998 pp. 30-34
(13) ARCHIVIO VESCOVILE DIOCESANO DI PARMA, Archivio del Collegio dei Parroci, Libro dei verbali, lettera dell’8 giugno 1849 in esso riportata. Stralci del documento ora in: C. PELOSI, Felice Cantimorri,  in Archivio storico per le Province parmensi, S. IV, vol. XIX (1967), pp.372-73; C. CORRADI, Parma e l’Ungheria, Artegrafica Silva, Parma 1975, pp.126-127, inoltre le pp.113-137 contengono il saggio più recente sul vescovo di Parma d’origine ungherese.
(14) La Relazione del Neuschel si può leggere, in “sunto d’ufficio” riferito dal relatore mons. Liverani alla Congregazione del Concilio del 27 luglio 1852, in Andrea Ferrari… cit. pp.290-91.
(15) U.COCCONI, Chiesa e società civile a Parma nel XIX secolo. Leumann, Editrice Elle Di Ci, 1998  p.38
(16) Andrea Ferrari…cit. p.292
(17) U.COCCONI, Chiesa e società… cit.p.39
(18) In U.COCCONI, Chiesa e società… cit.p.39-40
(19) ARCHIVIO VESCOVILE DIOCESANO DI PARMA, Cassetta Cantimorri, ora in C. PELOSI, Note ed appunti sul movimento cattolico a Parma (1859-1931), Parma 1962 p.17; un piccolo stralcio anche in Andrea Ferrari  e Guido Maria Conforti  nella Chiesa di Parma 1850-1893…Introduzione, note e indici di p. Franco Deodori. Roma, Postulazione Generale Saveriana, 1983, p.292. Nelle pp.293-308 di questo stesso volume si possono trovare importanti fonti sull’episcopato di mons. Cantomorri.
(20) G. LENTINI, Agostino Chieppi portatore di Cristo, Città Nuova, Roma 1990, pp 106-108 e 137-141.
(21) E. CASA, Le classi sociali a parma dopo l’unità, in Aurea Parma, L (1966), fasc. III, pp. 106-107.
(22) B. MONTALE, Clero e società civile a Parma dopo l’Unità (1861-1866), <<Rassegna storica del Risorgimento, LXIX, 1982. fasc. IV, p. 421.
(23) U.COCCONI, Chiesa e società… cit.p.53
(24) G.M. CONFORTI, in Giovane Montagna, 15 maggio 1909 
(25) D. M. VILLA, Della necessità della dotrina cristiana, Parma 1872                               
(26) D. M. VILLA, Prima lettera pastorale, Parma, 1872 p. 11.
(27) D. M. VILLA, Prolusione agli Studi per l’anno 1878-79, Parma, 1878  pp. 7-8; anche: C.Pelosi, Domenico Maria Villa, vescovo di Parma (1872-1882), in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878). Atti del IV Convegno di Storia della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1973,  pp. 195-196.
(28) cfr. Andrea Ferrari, cit.,  p. 51.  
(29) Il Presente, 22 giugno 1872


 

  
 
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